Emèresi

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Indagine su un modo improprio di leggere letteratura

di Luigi Arista

 

La questione di come si legge un testo letterario mi ha sempre suscitato molto interesse. Per dirla meglio, ho sempre pensato che la lettura fosse una 'questione', un nodo problematico da sciogliere, non l'unico né, forse, il più importante, però senz'altro uno di quelli che hanno contribuito al declino della letteratura, in una sorta di sua abdicazione al ruolo autorevole che possedeva un tempo.

Al riguardo mi formai abbastanza presto delle idee, che via via negli anni, tassello dopo tassello come conducendo un'indagine privata, confrontai con la storia dell'oggetto del problema. Oggi propongo le conclusioni a cui ero giunto, riassumendo il mosaico dei tasselli raccolti. E poiché si tratta di una ricostruzione che mette in causa il rapporto fra raziocinio ed emotività, nelle Note in calce aggiungo una brevissima escursione fuori dal letterario, affinché il mio pensiero non paventi troppi debiti di scarsa informazione su quanto dicono di quel rapporto le discipline competenti, dall'antropologia alle neuroscienze.

 

Comincio da una constatazione che non sfugge a nessuno. Nel modo più comune di leggere poesia, a mente o ad alta voce, si tende a ridare al testo scritto in versi l'andamento di una prosa. Non viene cioè osservato alcun rispetto dei ritorni a capo, dei ciclici silenzi di suono e di significato - le pause - che si dovrebbero porre fra verso e verso. Questa strategia fa perdere tutte le eventuali aggiunzioni di armonia sonora o evocazione o impressione o senso sottese alle sospensioni di ogni fine verso, ma a chi la adotta serve per ripristinare quanto più possibile la fraseologia di un discorso razionalmente organizzato. Un ostacolo alla percezione di quelle aggiunzioni, e perciò alla partecipazione completa della poesia sta, dunque, nella mentalità fortemente razionalista del nostro tempo. Ma per completare una visione dei problemi della lettura, tanto della poesia quanto della prosa, è necessario puntualizzare un concorso di causa, in apparente contraddizione col primo, costituito dall'altrettanto esuberante emozionalismo sempre del nostro tempo.

Noi siamo razionalisti da un lato ed emozionalisti dall'altro, cioè la nostra natura interiore è bipolare e secondo le conoscenze della tradizione occidentale siamo sempre stati così. Inoltre a me sembra che l'uomo di oggi viva una accentuata dicotomia fra i due aspetti di questa sua natura. Ma nel porsi quali cause di un modo di leggere che io giudico improprio, tali due aspetti non si contrappongono, anzi sono complementari; nell'atteggiamento comune verso l'arte letteraria - e si può dire anche verso tutta l'arte - una è conseguenza dell'altra. Infatti, il coinvolgimento emotivo lo si fa dipendere (lo si fa, ma si potrebbe altrimenti) dalla comprensione di un contenuto esplicito razionale, comprensione che quindi avviene puntando l'attenzione al solo livello logico di un'opera, ovvero ai suoi riferimenti 'univoci' a fatti, condizioni, situazioni, caratteri, ambienti. Se invece l'opera ha un significato che sta nell'insieme o nelle pieghe del discorso e il suo linguaggio è 'plurivoco' - secondo la definizione attribuita al testo espressivo da Della Volpe 1960, il contenuto nel quale ci si desidera coinvolgere sfugge. Quindi il problema è, riepilogando, che si va sempre inseguendo con la logica un contenuto da cui lasciarsi emozionare.

 

Sembra che un tempo l'intreccio delle tendenze si svolgesse diversamente, o che almeno fossero diversi l'auspicio dei teorici e l'intento dei grandi autori. All'interno della stessa letteratura vi è un esempio che considero emblematico, famosissimo per molti motivi ma non per quello che ora interessa me, e sceverato in tutti i suoi possibili ritagli di significato: l'incontro di Dante con Paolo e Francesca nel V dell'Inferno. Lì, su richiesta del poeta, la donna spiega che uno dei più noti romanzi (o poemi) dell'epoca, nel punto in cui narra che Ginevra e Lancillotto si baciano, induce Paolo "tutto tremante" a baciare lei, e in quel momento i due lettori precipitano nella passione non più controllata dalla ragione. Eppure Francesca garantisce: «noi leggiavamo un giorno per diletto», senza altre intenzioni recondite, e «sanza alcun sospetto» delle conseguenze a cui la lettura avrebbe condotto se stessa e il cognato. E la dignità che Dante conferisce al personaggio è garanzia per noi della sua sincerità. Secondo alcuni interpreti l'assenza di ogni sospetto può essere riferita, semplicisticamente, all'insospettabilità presso le terze persone e Gianciotto. Ma il previo "soli eravamo" non indica la circostanza agevole, casuale o cercata, per cui potesse accadere il fatto, bensì sta già a dire la normalità di trovarsi da soli; diversamente Dante non accorderebbe attendibilità alla donna e il senso dell'intero episodio sarebbe indecifrabile. Quindi l'insospettabilità va attribuita esclusivamente allo stato d'animo dei due personaggi. E a parer mio è certo che, quali persone colte e perciò sapendo trattarsi di un libro d'amor cortese, con il senso implicito e le possibili trame da attendersi da esso, leggerlo insieme costituiva per entrambi un innocente intrattenimento culturale. Di conseguenza il "diletto" era leggere per il 'puro gusto della lettura', e non avere "alcun sospetto" significò sia non sentire predisposizioni latenti sia, pertanto, non immaginare di ritrovarsi poi avvinti dalla 'forza della letteratura'. Il dialogo fra Dante e Francesca si rivela perciò, fra la molta materia che coinvolge, oltre che un acuto pentimento del proprio giovanile 'errore' cortese - ma errore per la materia trattata, non stilistico, giacché la Comedìa supera e condensa tutti gli stili precedenti -, una sottintesa visione del poeta di come la buona scrittura dovesse rivolgersi a intelletto ed emozione insieme e la giusta lettura dovesse assecondarne gli 'effetti totali' - tanto che Francesca dice: «solo un punto fu quel che ci vinse» -, senza subordinare il raziocinio al desiderio di emozionarsi (come invece farebbero «i peccator carnali / che la ragion sommettono al talento»).

Passando invece a lasciti teorici, ancora durante il '500 si poteva cogliere nella sensibilità letteraria l'attenzione alla "elocuzione" che fosse armonizzata al "concetto". Nei Discorsi dell'arte poetica il Tasso scriveva (III): «Che lo stile non nasca dal concetto, ma da le voci, affermò Dante [...]. Incontro, i concetti, sono il fine, e per conseguenza la forma de le parole e de le voci. Ma la forma non deve essere ordinata in grazia de la materia, né pendere da quella; anzi, tutto il contrario: adunque i concetti non devono pendere da le parole; anzi, tutto il contrario è vero, che le parole devono pendere da' concetti, e prender legge da quelli. [...] È opinione de' buoni rètori antichi, che subito che il concetto nasce, nasce con esso lui una sua proprietà naturale di parole e di numeri, con la quale dovesse essere vestito; il che se è cosí, come potrà mai essere che quel concetto vestito d'altra forma possa convenientemente apparere? [...] Ché, per dirla, la qualità de le parole può bene accrescere e diminuire l'apparenza del concetto, ma non affatto mutarla: ché da due cose nasce ogni carattere di dire; cioè da' concetti e da l'elocuzione (per lasciare ora fuori il numero); e non è dubio che maggiore non sia la virtú de' concetti, come di quelli da cui nasce la forma del dire, che de l'elocuzione.» In tal modo egli esprimeva la cura dell'unità estetica che doveva appartenere allo scrittore e di cui poteva fruire il lettore.

Credo invece si possa dire e verificare nelle tappe della storia che la situazione attuale si sia prodotta, dopo l'ultima età indicata, sotto l'influenza della cultura borghese. Ma aggiungo in anticipo che a mio modo di vedere il cambiamento avvenuto ha solo spostato i termini del problema, peggiorando in vera e propria scissione una bipolarità che in qualche modo ha sempre minacciato la lettura, e che invece dovrebbe essere saldata. E così vengo alla mia ricostruzione.

 

La questione del coinvolgimento emotivo fa pensare alla storia dell'arte drammatica e alla discussione intorno ai suoi valori, ai suoi scopi e ai suoi effetti sullo spettatore, a partire da quel grande quesito filologico che fu la nascita della tragedia e dal concetto aristotelico della catarsi. È inevitabile pensarci anche perché, fino a buona parte dell'età moderna, i generi letterari veicolati dal teatro costituirono più di altri quelli destinati al vasto pubblico. In un discorso sui gusti e sugli atteggiamenti comuni nei confronti della letteratura appare perciò finanche un obbligo cominciare da lì.

E dunque, il precetto che Aristotele detta insistentemente nella Poetica è che la tragedia deve emozionare di "pietà e paura" (brani sparsi). Egli però ha preventivamente messo in relazione l'arte letteraria al piacere intellettuale: «dalle imitazioni tutti ricavano piacere […] imparare è un grandissimo piacere non solo per i filosofi ma anche per tutti gli altri, tranne che ne partecipano in minor misura» (1448b 5-15). Poi, «ricavando dalle premesse precedenti la definizione della sua sostanza» sancisce che «tragedia è imitazione di un'azione seria e compiuta [...] che attraverso la pietà e la paura produce la purificazione di questi sentimenti» (Poetica, 1449b), cioè la kátharsis. Dunque cosa riguarda e qual è la prospettiva catartica? Il filosofo su questo punto dice troppo poco per chiarire, e anzi fa scaturire gli interrogativi. Agli approfondimenti, sia delle motivazioni intrinseche della tragedia, sia dell'ermetico cenno aristotelico, hanno partecipato non solo gli storici e i teorici di drammaturgia e di letteratura ma anche i filosofi e gli psicoanalisti, e non è certo per far torto a tanto qualificato pensiero, tuttavia, che ora ci si limiterà ad annotare solo qualche punto essenziale.

La forma classica del dramma (drâma: azione) era una rappresentazione di azioni, e aristotelicamente una mìmesis (imitazione verosimile) dell'agire di personaggi e non la narrazione di vicende, che lo stesso Aristotele ammetteva invece nell'epica. Nel dramma tragico in particolare, superiore a quello satirico (o commedia) per funzione sociale e spessore dell'arte, i personaggi in gioco erano mitici e d'alto rango, dèi, re, principi ed eroi, all'epoca tutti profondamente significativi nella simbologia degli affetti umani e delle relazioni umane col trascendente. Possiamo quindi pur credere che assistere a quella mimesi, corredata di potenti fattori spettacolari (le maschere, il coro, la danza, gli assetti studiati degli spazi teatrali e le posizioni degli attori), effettivamente procurasse il coinvolgimento emotivo.

Perché nel trattato aristotelico contemplare solo pietà e paura può essere motivato con la maggiore nobiltà attribuita a quelle rispetto alle emozioni di altre forme drammatiche e letterarie. Comunque il significato di kátharsis è stato dedotto dagli scritti dei Sofisti come illuminazione, chiarificazione, purificazione delle passioni, e dunque l'idea prevalente sul senso e sull'effetto del dramma tragico è sempre stata che da questo, quale rituale artistico, si sviluppasse un fenomeno che contestualizzava in un processo migliorativo della coscienza i suoi distinti aspetti, la partecipazione emotiva e lo scioglimento razionale degli impulsi passionali. Si è cercato di stabilire (da parte dei pensatori antichi e moderni dei quali dicevo) se tutto ciò avvenisse grazie all'acme delle emozioni stesse, per un loro naturale ritiro nella vigile consapevolezza dopo lo sfogo, oppure in virtù delle forme letterarie, scenografiche e coreografiche, che in ogni fenomeno artistico farebbero compiere il magico passaggio dall'emozione alla calma contemplativa, oppure perché le passioni erano esternalizzate sulla scena teatrale e non vissute in proprio, permettendo così il distacco cosciente da esse, oppure, ancora, grazie alla proiezione esterna delle generali tensioni esistenziali, che recupererebbe l'equilibrio psichico e perciò le funzioni razionali.

Da molto tempo non si scrivono e non si rappresentano più tragedie, ma finché furono in auge (o se lo fossero ancora), al di là dei motivi induttori della cosiddetta catarsi, l'unica cosa evidente mi pare questa: essa era (o sarebbe) uno stato interiore in cui si esauriva (esaurisce) l'antagonismo emotivo alla razionalità.

 

Platone era stato agli antipodi di Aristotele e peraltro aveva assunto due atteggiamenti diversi. Da un lato (Repubblica) egli censurava le "favole false" dei poeti perché non educavano ai modelli sociali di uno Stato ideale, dall'altro (Jone) considerava la poesia un "sacro furore" e il poeta un essere apparentato al divino la cui ispirazione "infiamma" i destinatari. I concetti di Platone si riproposero ancora in età classica nella nozione del 'sublime', in un trattato anonimo del I secolo d.C., che pone i grandi autori al di sopra delle esistenze comuni, poiché l'arte è, appunto, sub limen e travolge l'ascoltatore conducendolo all'esaltazione. Ma com'è noto furono il magistero aristotelico e quelli di Cicerone e Orazio a costituire i riferimenti fondamentali delle elaborazioni ideali, delle precettistiche scrittorie e del pensiero sui fini ricettivi della retorica e della poetica nel mondo antico. Per lo specifico dell'arte letteraria la summa degli insegnamenti può essere questa: l'ars (stile) e l'inventio (argomento) devono essere in stretto rapporto, secondo tre funzioni che la letteratura deve svolgere presso l'ascoltatore o il lettore: il docere (pedagogica morale o filosofica), il delectare (ludica) e il movere (emotiva). La definizione dei 'generi', anch'essi quasi tutti fondati in epoca greco-latina, non serve soltanto a catalogare le opere in un tipo o in un altro ma rappresenta il 'dover essere' secondo cui esse vengono misurate.

Io non sono un partigiano della razionalità nei fatti d'arte, com'è dimostrato anche da questo saggetto, ciononostante qui mi sembra importante formulare un'opinione in suo favore. Non stupisce che la riflessione, diciamo pure la teoria letteraria posteriore, in specie rinascimentale, si sia rivolta soprattutto all'aristotelismo giovato del contributo oraziano. Il platonismo e il suo portato sul sublime implicano una totale inermità del destinatario davanti al rapimento del 'furor poetico', la qual cosa risulta inaccettabile all'uomo volto verso la conoscenza. Mentre Aristotele, con le sue idee normative e giudicanti, pone la poetica tra i fenomeni umani sui quali si può operare, e Orazio, dal canto suo, dimostra l'attività pensante del poeta, dimostra che l'artifex può ragionare sul quel che produce.

Fin qui, è tutto quel che conta dire per l'economia della ricerca, perché prima degli incunaboli del romanticismo la drammaturgia non conosce dei significativi mutamenti rispetto al classicismo, salvo l'usanza medievale del 'dramma liturgico' quale forma di teatro popolare. Né tutto il resto della letteratura, nella cultura feudale estremamente statica, produce nulla di nuovo, salvo anche in questo caso aprire la semplice area tematica religiosa. E quel che accade dal basso Medioevo al Rinascimento lo sanno tutti. Piuttosto occorre parlare delle trasformazioni che, dal XVII secolo in poi, accompagnano la progressiva presa di coscienza e l'ascesa culturale della classe borghese.

 

Come si sa da altre storie dell'arte, delle letterature e delle concezioni estetiche, tali trasformazioni manifestano oscillazioni di tendenze fra le eredità del classicismo e le istanze di modernità rivolte alle esigenze e al vissuto delle nuove classi sociali. Anzi è bene precisare che i mutamenti sono molto graduali e compositi, come avviene sempre fra un passato e un futuro, e spesso comportano nello stesso momento atteggiamenti contrari a quelli prevalenti. Ma per spiegare è necessario fissare perimetri di tempo e di categorie, purché non siano del tutto arbitrari e tocchino in modo congruo i termini del discorso che si conduce. Per cui, lo scenario che si sta trattando può essere ulteriormente riassunto così.

Il '600, già considerato epoca decadente e del cattivo gusto, fu in realtà carico di una complessiva 'rimeditazione' e di spunti verso il moderno. Nella lirica, dopo la stretta normazione cinquecentesca, in Italia, Spagna, Francia, Inghilterra, con la poetica dell'artificio e della meraviglia si rivalutano l'importanza del lettore e il potere persuasivo della parola. In campo narrativo è invece da segnalare la duplice svolta compiuta da M.me Marie de La Fayette, che creò il 'romanzo breve', la misura intermedia fra romanzo classico e novella che avrà fortuna molto tempo dopo, e introdusse il 'dialogo interiore' del personaggio, elemento archetipico di psicologia che pure sostanzierà tanta narrativa futura. Ma soprattutto in Francia si evidenzia anche una situazione sociale che ha nella comunicazione pubblica il suo momento vitale, e fra tutte le attività intellettuali e artistiche tale comunicazione avviene, ancora, nel teatro.

Verso fine Seicento due forme drammatiche principali caratterizzano il teatro europeo: la tragedia classica con le sue tematiche mitologiche ed eroiche, prediletta dalla nobiltà, e la commedia dell'arte, che degenerava spesso in comicità facile e volgare ma otteneva grande successo presso il ceto basso perché ne ritraeva la vita e i costumi. Poi, all'inizio del '700, la borghesia si rafforza nel potere politico ed economico e comincia a far sentire il suo peso culturale. Da essa emergeranno i nuovi ranghi intellettuali, che formuleranno il razionalismo illuminista e un'arte teatrale e letteraria realista, naturalista e animata da temi sociali. E tutto il secolo arcadico e illuminista, neoclassico e preromantico, durante il quale vengono gettati i presupposti dei grandi cambiamenti successivi, è quello che avvicina maggiormente il teatro alla letteratura.

Dapprima si inserisce un terzo genere di dramma, la 'commedia lacrimosa', nato in Francia e dal quale Diderot prese le mosse per porre i fondamenti teorici del 'dramma serio', sia come veicolo di protesta politica (contro il classicismo tragico, perciò contro la nobiltà), sia come richiamo artistico alla verità dei costumi e alla realtà dei sentimenti. Nel frattempo una corrente patetica e sentimentale aveva investito anche il dramma e la letteratura inglesi, mentre in Italia si era inaugurata l'egida del melodramma, sui temi arcadici dell'amore e delle virtù, e della commedia goldoniana, attenta a rappresentare pregi e difetti degli uomini comuni. Tra la metà e la fine del secolo, il vero e proprio 'dramma borghese', che nasce dal dramma serio, trova la sua più compiuta definizione e la sua più valida realizzazione in Germania, grazie soprattutto all'opera teorica e di pratica teatrale di Lessing.

Fuso con la corrente filantropica dell'illuminismo, il dramma borghese si fa carico della funzione educativa attribuita al teatro, la quale consiste principalmente nell'uso della ragione, come misura per la comprensione della realtà, e nel promuovere la nobiltà del sentimento, garante della convivenza sociale. Ovvero, nella finzione teatrale lo spettatore deve considerare la verità delle situazioni, che quand'anche non contingenti storicamente sono assolutamente rappresentative delle realtà umane, e deve vivere nel sentimento dei personaggi.

Aristotele aveva prescritto: «[...] perché la tragedia non è imitazione di uomini, ma di azione e di vita. Non si agisce dunque per imitare i caratteri, ma si assumono i caratteri in dipendenza delle azioni […] Inoltre senza azione non può esservi tragedia, mentre senza caratteri potrebbe [...]» (Poetica, 1450a). Come si vede, invece, ora il dramma non è più una rappresentazione di azioni ma di storie e circostanze e dei caratteri degli uomini. Inoltre, da mimesi come verosimile possibile esso verte alla puntuale descrizione della realtà; i protagonisti non sono più superuomini o particolari tipi umani ma comuni mortali, e nell'effetto sullo spettatore si introduce un'inversione rispetto al processo che nella tragedia si dice portasse dal coinvolgimento emotivo allo scioglimento razionale o illuminazione.

 

Una rottura ancora più marcata con il passato avviene attraverso il romanticismo, anch'esso composto da facce diverse e specifiche ma ben identificabile come fenomeno espanso all'intera Europa entro una serie di ispirazioni e atteggiamenti unificanti. Siamo in clima di lotta fra la borghesia che ha scalato le vette del potere politico e la nobiltà che tenta la restaurazione del vecchio regime. Sul fronte dei manifesti culturali, delle teorie dell'arte e della fattura letteraria dilagano la valorizzazione del sentimento, la comprensione della realtà dall'interno delle circostanze concrete e non sulla base di rigidi inquadramenti razionalisti, uno stato interiore di instabilità e inquietudine, una religiosità dell'uomo nel creato, un senso spiccato di individualismo e la rivalutazione della Storia.

E qui occorre cominciare a pensare che quanto si dice avvenire in Europa significa, culturalmente, che già da tempo idee e formae mentis si espandono verso le aree del mondo colonizzate e popolate da europei, e annotato questo torniamo alle vicende europee.

In quel quadro, il teatro è ancora un genere centrale nelle preoccupazioni di rinnovamento culturale. A parte i grandi nomi di Goethe e Shiller nel trapasso di secolo e poi di Byron, Hugo e Dumas, non vi corrisponde un'altrettanta prolifera e apprezzabile produzione di testi, anzi spesso scadenti. Ma l'affarismo borghese ne fa ugualmente il più frequentato intrattenimento alla moda dell'Ottocento, adattando alle nuove esigenze sceniche i migliori autori del passato (Shakespeare, Corneille, Molière, Racine) e imitando il melodramma. E però nel frattempo sta accadendo qualcosa di saliente, che inciderà radicalmente sul futuro. Cioè, la stasi letteraria della sceneggiatura teatrale corrisponde all'ascesa del 'romanzo', che sebbene non subito con grandi tirature di stampa diventa il nuovo mezzo di diffusione popolare e rappresenta la trasformazione romantica del rapporto fra pubblico e letteratura. Ancora Goethe e Hugo, quindi Stendhal, Balzac, Scott, Puškin, Gogol', Manzoni, Nievo, non sono che pochi nomi molto noti per rappresentare tale trasformazione.

Il romanzo ottocentesco possiede tratti simili a quelli di ciò che ormai è riconosciuto univocamente come 'il dramma', e in molti casi esemplari ne è la continuazione libresca, ove si sono inseriti i motivi romantici: realismo storico, sociale e di situazione, tormento e desiderio di vita, sentimento, introspezione psicologica. Ejchenbaum, noto fra i padri dell'analisi strutturalista, evidenziava così il legame fra teatro e romanzo nel XIX secolo (Teoria della prosa 1927): «[Dal] materiale descrittivo dei costumi e della psicologia si sviluppa il nuovo romanzo dell'ottocento: il romanzo di Dickens, Balzac, Tolstoj, Dostoevskij. [...] Tipico d'un tale romanzo è l'ampio uso di descrizioni e caratterizzazioni, da un lato, e di dialoghi, dall'altro. Questi dialoghi si svolgono a volte come un semplice colloquio che o caratterizza mediante il dialogo i personaggi (Tolstoj) o è una forma dissimulata di narrazione e pertanto non ha in sé alcunché di 'scenico'; a volte, invece, essi assumono una forma genuinamente drammatica [...]. Il romanzo in tal modo rompe ogni legame con la forma narrativa e si trasforma in una combinazione di dialogo scenico e di ampie didascalie che servono di commento alla scenografia, ai gesti, all'intonazione ecc.»

Ed ecco, a questo punto si instaura definitivamente il nuovo modo comune di leggere. La letteratura prevalentemente offerta e che incontra il prevalente gusto del lettore, appunto il romanzo, possiede caratteristiche espressive corrispondenti al realismo dell'epoca (ogni realismo è relativo al senso del vero della sua epoca). Essa è sorretta da un fondo ideologico e utilitaristico, come accade quasi sempre alle poetiche programmate con fini sociali e culturali. È ovvero una letteratura, sovente minuziosa di particolari, concepita per una chiara comprensione delle trame dei fatti e dei caratteri umani, ambientali e storici, che faccia immergere e sostare il lettore negli stati interiori.

Nella specie della svolta romantica, anche la lettura del critico viene intesa come partecipazione agli effetti emotivi delle opere. Aggettivando seppur tra le parentesi quel che finalmente si è rintracciato in questo excursus, Muzzioli 1994 conferma che: «L'immedesimazione e la commozione (proprio nel senso etimologico del 'muoversi insieme' a qualcuno) diventano i cardini dell'approccio al testo. Certo, sui modi della partecipazione i romantici si interrogano, ed offrono, come vedremo, risposte discordi, dando talora campo alla facoltà riflessiva, talaltra (in quella che sarà la versione del romanticismo deteriore, destinata ad entrare nel senso comune) affidandosi all'intensità del 'sentimento'.» E dopo il romanticismo gli studiosi si interrogheranno ancor di più circa il nodo della partecipazione, ma il lettore comune non studia e non si interroga, perché la scuola non lo ha realmente ben educato.

 

Qui giunto, ricapitolo e tiro le somme. Come dicevo entrando in tema a mio avviso si può sostenere, considerando i costumi, l'evoluzione tecnologica, la specializzazione settoriale delle competenze, la distribuzione dei tempi e i ritmi di vita, che la separazione nell'uso delle risorse razionali e di quelle emotive nell'uomo di oggi sia più accentuata rispetto al passato e all'antichità. Nella cultura e nell'organizzazione sociale odierne, le applicazioni quotidiane e la comunicazione esigono un uso predominante di razionalità, e nei tempi di pausa si è spinti fortemente verso l'emotività. Ovviamente si tratta di pause che non rigenerano a un effettivo stato di benefico equilibrio. Ma così stan le cose, sebbene vi sia chi segnala il paradosso, e tornando alla nostra questione si constata che, al di là dell'espressione letteraria e delle sue qualità intrinseche, al di là di quel che si è scritto nell'Ottocento e nel secolo successivo, la lezione generale passata attraverso il dramma borghese e il romanzo ottocentesco è dunque una lettura che uniforma al contenuto e alla sua comprensibilità per coglierne col massimo profitto i risultati emozionali. Si è trattato di una lezione durata ben più di un secolo, che ha fatto ottima presa anche sul lettore del Novecento e sulle idee di molti scrittori - e perciò oggi la lezione, o induzione, ha superato la durata di due secoli, nonostante i pronunciamenti di valenti artisti e teorici e nonostante i rivolgimenti avvenuti nella stessa produzione letteraria.

Ora, non si vuol negare un che di costruttivo nello sperimentare e rapportare a sé e alla propria coscienza situazioni di personaggi e relativi stati d'animo, quando cala il sipario sulla pagina letta e ci si acquieta più o meno soddisfatti. Ma il problema è stato prima, nella lettura contenutistica che non coglie tutti i fini del testo letterario. Il contenutismo si è radicato nelle abitudini, anzi di più, nelle 'convinzioni' della lettura a danno delle piene risorse dell'intelletto, che liberato da squilibri o vizi asseconderebbe invece l'intero fenomeno artistico della letteratura.

Questo fenomeno può avvenire tanto con la poesia quanto con la prosa, e della prosa non intendo quella cosiddetta lirica, ma dico proprio anche la narrativa. La plurivocità del discorso poetico (al quale Della Volpe assegnava la definizione che io adotto per il generico testo espressivo) è consegnata all'ingrediente elementare dell'espressione, la parola, che secondo le altre parole cui s'accompagna, i fattori del ritmo, le pause versali, apre i varchi del senso ulteriore (ancora con Della Volpe, è il 'polisenso'). Ma anche il racconto o il romanzo possono includere elementi di plurivocità. E verso chi osserva che il narrare ha un altro scopo, cioè specificamente raccontare 'storie', perciò non vive di linguaggio plurivoco e non serve che ne abbia, mi spiego con un esempio minimo e lampante.

Il primo e fondamentale romanzo italiano moderno, peraltro di intenti storicistici, morali e linguistici molto ragionati dall'autore, ci introduce in questo modo al 'dove' si svolge la 'storia' di Renzo e Lucia: «Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti ...». È il primo segmento fraseologico di un incipit chiaro e razionale, nel quale però colui che legge con intelletto pieno può avvertire già una 'retrovisione' dello scenario ambientale naturale. Vediamo come. In "Quel ramo del lago di Como" le allitterazioni e assonanze che leggendo fanno suono "e-a-o_e-a-o_o-o" e gli accenti lievi e forti che cadono sulle sillabe, e che rappresentati con i segni "-" e "+" hanno andamento "| - | + | - | - | + | - | - | + | - |", in sole sei - non a caso brevi - parole danno proprio un'impressione di calma piana di lago appena mossa da onde. Gli effetti del segmento però non hanno ragioni esclusivamente fonologiche, com'è evidente in "che volge a mezzogiorno". Qui sovviene alla mente la luce della mattina, sebbene "mezzogiorno" indichi il sud e non l'orario mattutino. Il segreto è nella scelta delle due parole. Non si può sapere quale sia stata l'elaborazione o l'intuizione verbale dello scrittore, ma nel risultato il verbo "volge", oltre che presentare un richiamo fonico in "gi" col sostantivo "mezzogiorno" (che non avrebbe con le alternative 'sud' o 'meridione'), soprattutto ha in sé la semantica del formare un arco, del compiere un moto a 'volta' come fa il sole, e da questo ulteriore spostamento semantico all'idea del sole nasce l'impressione che il panorama sia visto al mezzodì. Infine giungendo a "tra due catene non interrotte di monti", l'alternanza delle lettere "t" fra i richiami di "r" ed "e" e "n" (allitterazioni) procurano quasi la comparsa visiva dei monti, per associazione sonora alla lettera "t" della parola stessa e più ancora delle parole "punta" e "vetta".

Ebbene, effettivamente non si chiede a un romanzo di rendere a ogni frase effetti simili. Non conosco e credo che non esista nessuna misura più lunga di un sonetto che resista a tanto, né in poesia né in prosa. Né la prosa si giova della struttura versale che sta a fondamento sia delle sonorità ritmiche, sia dell'efficacia verbale, sia della partitura intonazionale. Tuttavia l'esempio addotto forse adesso fa capire che anche il testo narrativo può suscitare figurazioni, evocazioni, aggiunzioni di senso, sovvenimento di latenze mentali, ampliando la gittata cognitiva dei costituenti la narrazione. Senza dire di plurivocità che vi si possono situare quali simboli o allegorie.

Insomma, poesia o prosa, se oltre al contenuto esplicito venissero letti gli accorgimenti formali e semantici di un testo - e l'autore avesse avuto la capacità di scriverli - dal fenomeno d'arte letteraria di cui parlo si otterrebbe una diversa sorta di illuminazione, un effetto che corrisponde pagina dopo pagina e globalmente non tanto o non solo ai nodi dello stomaco o ai battiti del cuore emozionati, ma anche o piuttosto a uno slegamento della mente e al respiro, la cui sorpresa sarebbero le appaganti latitudini di un partecipare e conoscere intero.

Non so spiegarmi più esaurientemente. Dico solo che questa sarebbe la compiuta emozione, se così si potesse ancora chiamare, della letteratura, oltre la frattura tra logica ed emozione. Forse qualcosa di meglio della catarsi, poiché la dissidenza fra passione e ragione non vi si esaurirebbe, bensì non si presenterebbe affatto.

 

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Nota 1

Che l'uomo sia stato comunemente pensato diviso in due parti distinte e discordanti, in quella sua dimensione immateriale eppure senziente chiamata anima, è noto fin dalle speculazioni di Platone (escludendo l'anima 'concupiscente' connessa a desideri e bisogni fisiologici). La medesima idea fu rafforzata, anche se non in modo incontrastato, dal razionalismo cartesiano all'ingresso della filosofia moderna. Le emozioni, o passioni, erano considerate una sorta di 'strappo' dell'essenza razionale. Ma più che la filosofia è il pensiero scientifico a cambiare le visuali nell'Ottocento, e con Darwin si fa strada la tesi che le emozioni costituiscano un meccanismo adattativo per la sopravvivenza della specie. Dopo di che Freud non contrappone più ragione ed emozione e le intende come componenti inscindibili del funzionamento della mente, dove l'emozione è la parte in ombra. Nella contemporaneità si è aperto il dibattito delle scienze umane sulla circostanza che l'emozione faccia parte della 'cognizione'. Finché in tempi pressoché recenti, da fonti neuroscientifiche si è andata evolvendo una concezione della mente umana quale unità, che agisce 'in accordo' a due forze non separate bensì interdipendenti. Il medico Antonio Damasio, portoghese che opera negli U.S.A., ha persino scritto un libro dal titolo L'errore di Cartesio (1994). Secondo le sue esperienze, la concezione che separa mente e corpo è del tutto errata, e l'errore di Cartesio è stato di non capire che la natura ha costruito l'apparato della razionalità non solo al di sopra di quello della regolazione biologica ma anche a partire da esso. Così per esempio, un processo decisionale di scelta fra alternative per Damasio non dipende affatto dal solo raziocinio, bensì è condizionato dalle risposte somatiche emotive, utilizzate da un soggetto come indicatori della bontà o meno di una certa prospettiva. Io penso che l'approccio e la scoperta siano interessanti per il futuro delle idee sull'essere umano, tuttavia per ora non producono comportamenti sani o armoniosi né degli individui né delle società. Psichiatri e sociologi, altrimenti, non descriverebbero panorami disastrosi di separazione fra emozione e razionalità nella nostra epoca. Pertanto direi che, al di là della ricerca sul funzionamento biologico - cerebrale - della coscienza, ed eventualmente di una futura 'educazione' degli individui basata sui suoi risultati, la circostanza che conta è come usiamo oggi le due risorse di razionalità ed emozione, consapevolmente o inavvertitamente.

 

Nota 2

Sulla lettura corretta della poesia, e in particolare sull'importanza del ritorno a capo, segnalo il mio saggio Il 'versus' nel Canto V dell'Inferno, reperibile in libreria ma anche nel web in cartaceo e formato ebook, in www.youcanprint.it e nei maggiori 'store online'.

 

Luigi Arista

 

(gennaio 2016)

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Luigi Arista

nel N. 1 del 29 ottobre 2015

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