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Critica

Dialogo con Pavese: "Legna verde"

 

Il commento a una poesia di Cesare Pavese - Legna verde, nell'omonima sezione di Lavorare stanca - in forma di intrattenimento con il poeta per la riflessione personale sui suoi orizzonti di pensiero. Andrea Matucci porge così una breve critica tinta di suggestiva ibridazione coi modi propri di un brano di letteratura.

 


di Andrea Matucci

 

 

«L'uomo fermo ha davanti colline nel buio.
Fin che queste colline saranno di terra,
i villani dovranno zapparle. Le fissa e non vede,
come chi serri gli occhi in prigione ben sveglio.
L'uomo fermo - che è stato in prigione - domani riprende
il lavoro coi pochi compagni. Stanotte è lui solo.»

Chi è, Cesare, quell'uomo fermo che ci indichi, quasi come se ci descrivessi un quadro? Non sei tu, avresti usato, come in altre poesie usi, la prima persona, e poi tu non sei stato in prigione, e soprattutto non sei un contadino. Ma non è nemmeno un'immagine generica di umanità, nella quale immediatamente tutti possiamo riconoscerci: è un personaggio della tua fantasia, uno dei tanti personaggi del tuo "Lavorare stanca" che, sul modello dei tuoi maestri Whitman e Lee Masters, appartiene alle classi più basse, ai dimenticati, alle vittime di questo mondo, ai ribelli. E che, sempre secondo l'insegnamento dei tuoi maestri, ti è molto vicino, è nato e vissuto nella tua stessa terra: non ha dunque forse la tua cultura, le tue utopie, non è un intellettuale insomma, ma quelle colline che vede sono le tue colline, e quei villani, che dovranno in eterno zapparle, sono la tua gente, il tuo sangue, le tue origini. Per cui quel pensiero del secondo e terzo verso, l'eterna condanna alla fatica, appunto, non sai se è tuo o del tuo personaggio: è di tutti e due, in un equilibrio che è la tua caratteristica, Cesare, la tua totale fiducia nella possibilità di interpretare, da scrittore colto, l'animo e l'ottica dei personaggi più popolari: quella fiducia che fra un paio di decenni il Pasolini di "Terra di lavoro" avrà irrimediabilmente perso. Ma più di questo sai cosa mi piace di questo inizio? Quella parola ripetuta, "prigione", prima come metafora - come si farebbe in prigione - e poi come realtà vissuta, quell'uomo è stato in prigione, e lo dici in un inciso pesante, che allunga a dismisura il quinto verso e accentua la prosaicità del tuo poetare. È chiaro fin da questo bellissimo inizio, non credo che mi smentirai, che "prigione" sarà in tutta la poesia memoria reale del personaggio, testimonianza di ostilità al mondo e del mondo, e anche metafora di una condizione di minorità, isolamento, non-speranza. E poi mi piace, moltissimo, quel contrasto dell'ultimo verso fra un'altra parola chiave, "compagni", che negli anni in cui scrivevi manteneva, e mantiene tuttora, una forte connotazione politica, e quel "solo" finale, che nel contrasto, appunto, decuplica il suo senso di isolamento, e di nuovo, come dire, lo prefigura.

«Le colline gli sanno di pioggia: è l'odore remoto
che talvolta giungeva in prigione nel vento.
Qualche volta pioveva in città: spalancarsi
del respiro e del sangue alla libera strada.
La prigione pigliava la pioggia, in prigione la vita
non finiva, talvolta filtrava anche il sole:
i compagni attendevano e il futuro attendeva.»

Ecco, lo sapevo che ti arrabbiavi perché ho parlato di prosaicità. E mi rispondi con una strofa perfetta, musicalissima, due versi di sedici sillabe, primo e quinto, e gli altri di tredici, tranne l'ultimo che grazie a una sinalefe lunga, su tre vocali, diventa un doppio settenario che sembra perpetuare quell'attesa. In tutti il tuo tipico ritmo ternario anapestico, martellante, e quel meraviglioso enjambement su "spalancarsi / del respiro" che sembra davvero aprire una libera strada a chi è recluso, e quell'insistere sulla "p" con cui iniziano quasi tutte le parole del quinto verso, a ribadire la centralità semantica del concetto di "prigione", ripetuto tre volte. Sì, è una condizione reale del personaggio, o lo è stata, ma è anche metafora di un'oppressione in cui si resiste, si può resistere e guardare avanti: non c'è solo pioggia in prigione, talvolta il sole filtra, la vita non finisce, c'è un futuro e i "compagni" lo attendono. Bravo, Cesare, dopo un notevolissimo attacco, adesso una seconda strofa che è forse uno dei più bei luoghi in cui la nostra letteratura ha trovato la via per dire ciò che non poteva essere detto: il buio della dittatura e la luce della speranza, la prigione e la pioggia, il sole e il futuro: vengono in mente il Vittorini di "Conversazione in Sicilia" e il Buzzati del "Deserto dei Tartari", e spero che tali accostamenti ti siano graditi.

«Ora è solo. L'odore inaudito di terra
gli par sorto dal suo stesso corpo, e ricordi remoti
lui conosce la terra - costringerlo al suolo,
a quel suolo reale. Non serve pensare
che la zappa i villani la picchiano in terra
come sopra un nemico e che si odiano a morte
come tanti nemici. Hanno pure una gioia
i villani: quel pezzo di terra divelto.
Cosa importano gli altri? Domani nel sole
le colline saranno distese, ciascuno la sua.»

Ora è solo: che pugno allo stomaco… e adesso no, non hai motivi per essere arrabbiato, se non quello che non si può chiudere gli occhi davanti alla realtà. E chi ti legge quasi scopre, improvvisamente, che i verbi della strofa precedente erano tutti al passato, che quell'attesa e quella speranza appartenevano a un momento particolare, uno di quei momenti in cui non puoi sopravvivere, nel vero senso della parola, se non attaccandoti disperatamente a un raggio di sole, a un'irrazionale utopia. È vero, Cesare, solo ora ce ne accorgiamo: non si può accostare alla parola "futuro" un verbo al passato, così facendo si crea solo una sorta di disperato ossimoro… e adesso, ora, nel perentorio presente di chi scrive e di chi legge, l'uomo è solo, e l'odore di quella terra di lavoro e di fatica, i suoi stessi ricordi, lo costringono, lo schiacciano al suolo, come l'albatro di Baudelaire, perché? Perché i villani hanno solo nemici: è nemica la terra, sono nemici gli altri, chiunque altro, in quel doppio enjambement e in quell'anafora di "come", un rintocco mortuario. L'unica gioia, la proprietà individuale - stavo per dire privata… - unico scopo la sua difesa e, perché no, la sua crescita, il resto non conta, c'è più solidarietà in un branco di lupi. Se la seconda strofa faceva pensare a un'ansia di liberazione sociale, a un'uscita dalla prigione, qui l'impatto sincero, coraggioso, con la realtà, almeno con quella delle campagne, ci fa capire quanto quell'obiettivo sia lontano, forse veramente utopico, irraggiungibile nei fatti. Cosa ci aspetta ora? Solo angoscia?

«I compagni non vivono nelle colline,
sono nati in città dove invece dell'erba
c'è rotaie. Talvolta lo scorda anche lui.
Ma l'odore di terra che giunge in città
non sa più di villani. È una lunga carezza
che fa chiudere gli occhi e pensare ai compagni
in prigione, alla lunga prigione che attende.»

No, i "compagni" - e qui il significato politico è indubbiamente preponderante - non sono i villani, non possono esserlo: se c'è una speranza essa dovrà essere riposta solo in chi conosce rotaie e non erba. Ma è una consolazione? Usciremo di prigione, tutti, se la fetta maggioritaria e più schiava dell'umanità vede solo il proprio egoismo? Inutile scordarselo, come talvolta accade al tuo personaggio che forse, come te, si è illuso, un tempo, che "compagni" fossero tutti, operai e contadini: bisogna sempre ricordare, invece, che la terra, vista dalla città, ha un odore che non è più il suo, è filtrata da sogni, da utopie politiche, da illusioni che forse, purtroppo, sono ancora quelle di chi con Pisacane sbarcò a Sapri: ma la "legna verde" non brucia. Potrà fare un sacco di inutile e fuorviante fumo, ma non brucia. E però non abbiamo altro, Cesare, è vero, realisticamente, antropologicamente vero: abbiamo solo quell'odore, falsato dalla distanza, l'unica cosa che ci accarezza, ci fa chiudere - forse colpevolmente - gli occhi, e ci consente solo di pensare a chi è ancora in prigione, a quanto siamo tutti, ognuno di noi, in prigione, e a quanto sarà in ogni caso lunga l'oppressione: questo è il futuro che ci "attende", e non "attendeva"… Sai, Cesare, voglio confessarti una cosa: quando ero giovane il tuo malinconico pessimismo, il tuo unire in impossibile unità coscienza marxista e rassegnazione, mi infastidiva, preferivo, se pessimisti bisogna essere, il pessimismo più radicale, assoluto, di Pasolini, perché almeno era urlato, disperatamente violento. Adesso ti apprezzo, e riconosco la tua grandezza, anche se non posso e non voglio dire che ne sono felice, altrimenti ripeterei qualche frase fatta di tipo stendhaliano, chi non è rivoluzionario a vent'anni non ha cuore… bah, per consolarmi mi chiedo se si dia anche il contrario, cioè se c'è qualche poeta che amavo da giovane e che adesso mi infastidisce. Ci devo pensare…

 

Andrea Matucci (novembre 2016)

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