Emèresi

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Letteratura

L'isola

di Neil Novello

 

Un racconto di Neil Novello, scrittore oltre che saggista e intellettuale dai molti interessi, letterari, drammaturgici, cinematografici. La prosa perviene mentre in Teorica e in Libellus si parla di realtà nella letteratura, e consente un'ulteriore parentesi al riguardo.
Entro quella che si è detta la "selva" di tendenze del post-moderno, una spinta realistica non è mai scemata (come era sempre esistita) e nell'odierno si è anzi fortemente riattivata quasi a diventare, in ciò che potrebbe ormai chiamarsi "attualismo", resoconto immediato, appendice documentale non mediata da valori linguistico-espressivi né canonici né nuovi, delle problematiche sociali, culturali e civili emergenti, senza dubbio importanti e talune drammatiche ma delle quali già si fa ampissima cronaca e diffusissimo intrattenimento extra-letterario.
Chiusa la parentesi, il brano di Neil Novello si presenta come trasposizione narrativa di un evento assai remoto (la tortura di Damiens, autore del fallito attentato al re francese Luigi XV) quale allegoria della crudeltà di cui è capace l'essere umano, con evidente riferimento a efferati fatti di sangue attuali. Ma non si tratta, appunto, del sopradetto attualismo, poiché l'interesse realistico è situato nella riflessione sulla atemporalità della violenza e nella visione allegorica di essa. Su questo e sulla descrizione dei dettagli di brutalità, si esprime direttamente l'autore. Egli spiega: "L'elemento orrorifico poi è in parte condizionato da un libro di Adriana Cavarero, Orrorismo, in parte scaturito dalla tradizione testimoniale: davvero Damiens è stato torturato, cioè voglio dire che il passaggio dalla realtà alla ricostruzione letteraria, non per il solo mutamento di mezzo, chiama a muta l'ordine e la natura dell'evento. Quel che è scritto cioè è accaduto, alla letteratura il compito, non dico della registrazione, ma, spero, di provare la via della mimesi. Di qui a spiegare le ragioni del dettaglio si fa in fretta: è la realtà. E l'abbiamo visto negli ultimissimi giorni, qualcuno paga nel proprio corpo presunte e spesso metafisiche colpe. L'orrore, in tale senso, non è un privilegio della letteratura, è la lingua della realtà (per fortuna non la sola)."

 

 

L'isola

 

Quando Jannis e Arsène estrassero i coltelli dai foderi di vecchio cuoio, Zephrin urlava e sanguinava da tanto tempo. Dalle areole dei grandi capezzoli bruni strappati da tenaglie roventi, il sangue scorreva a fiotti senza arrestarsi. E una coppia di morsetti stretti a due lembi di quadricipiti divelti mostrava da lontano la bianchezza del femore. I becchi taglienti di due pinze abbandonate in terra stringevano ancora grossi pezzi di carne insanguinata: erano brani lacerati di tricipite. Dai deltoidi alle mani, le braccia erano ancora unte di sangue e sudore. E la destra, abbandonata come una morta protesi calcificata, era stretta in pugno come se afferrasse un coltello. Era la mano con cui si mormorava avesse attentato alla vita di un grande uomo. Lì in terra c'era quel che restava di cinque dita annerite dalle vampe, lacerti di tessuto ormai quasi carbonizzato. Insieme al sangue, dalle braccia e dal petto, e giù fino alle gambe, un intruglio di piombo, cera e pece, zolfo, olio, sale e aceto agiva tra le piaghe, i tagli, le ferite e i buchi, gli sfregi, le lesioni, le scorticature e gli squarci del corpo. Il male però s'era come interamente adunato attorno alle povere pupille del disgraziato, due sfere smorte che languivano in mezzo a due enormi macchie rosse entro cui annegava il bianco dei bulbi oculari. Ogni tanto, quasi a voler scongiurare il dolore, Zephrin mormorava: ... Continua a leggere

 

 

(pubblicato ad agosto 2016)

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