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Critica

I "passi sui sassi" di Cinzia Della Ciana

 

Una recensione della raccolta di versi "Passi sui sassi" (Effigi Edizioni, aprile 2017) di Cinzia Della Ciana, autrice della quale pubblicammo alcuni inediti nel n. 3 di marzo 2016.

 


di Matteo Veronesi

 

Sottili meccanismi, fini ingranaggi verbali quasi perfetti, le poesie di Cinzia Della Ciana raccolte nel libro - dal titolo simbolico ed evocativo - Passi sui sassi.
E innovativi il ritmo e il suono, marcati, scanditi, netti, a volte aspri: adatti ad un discorso antilirico, venato di un espressionismo denso di concetti, qual è quello che caratterizza la sua Musa.
Vengono in mente due poeti molto diversi, ma che raffigurano entrambi, in fondo, il percorso dell'homo viator, il cammino sospeso fra l'immanenza e il destino, teso fra terra e cielo: Jacopone da Todi e il Manzoni degli Inni sacri; e poi Rebora (ma si potrebbe fare anche un altro nome, aretino come l'autrice, quello di Guittone, la cui arcaica asprezza, la cui impervia corposità infastidivano il più etereo e rarefatto Stilnovo).
È una linea peculiare nella poesia italiana, lontana sia dall'astrazione della lirica pura, sia dalle contorsioni dell'avanguardia con le sue acrobazie verbali a volte fini a se stesse. Il rischio è quello della dissonanza: ma sono dissonanze volute, calcolate, programmaticamente irrisolte, derivanti da sovrapposizioni di toni, e dunque sorrette da un'intima coerenza; dissonanze, per così dire, strawinskiane, politonali più che atonali, che nascono cioè dalla giustapposizione e dal conflitto di registri uno ad uno, in sé, ben definiti, razionalmente tracciati, più che da un'assenza di contorni o da una sostanziale incoerenza.
Il rumore e lo stridore del tempo, dei giorni terreni, sono accompagnati, e sovrastati, e in qualche modo scanditi, dal silenzio dell'eterno, da una "storia ideale eterna" avvolta da nubi d'indicibilità.
«E fu boato / che sillabò l'eterno muto» (vengono in mente il «rombo silenzioso», l'«ululo muto» degli amuleti e delle epifanie montaliani, anch'essi fasciati da un alone d'enigma).
A tratti una inquietante fenditura apre la prospettiva di una discesa agli inferi, in un paesaggio esangue e devastato. «Più giù giace una lampa / travolta, sfrangiata / di tentacoli viola, ritorta / medusa, isola morta».
Ma un vasto respiro, che fa pensare alla montaliana «pagina del mare», al mondo come immenso libro da decifrare, pieno di sensi labirintici e fascinosi, o al vento di Valéry, che nell'immobilità abbacinata dei marmi cimiteriali sprona a «tentare di vivere», riporta un soffio vivificante, accompagnato da sonorità liquide di fluidità e vibranti di luce e di suono: «Spalanco il respiro. / L'iride ride nuda. / Liquida nell'immenso / nuota la gaia noia. / Muoio di leggerezza / davanti al Libro Aperto».
Ma ci sono anche le ombre del passato, l'esile e tenue, eppure remoto e profondo, ricordo delle radici etrusche, che fa pensare a Cardarelli, o alla grandiosa immagine rilkiana, nell'ottava Elegia Duinese, delle «anime di Etruschi / vaporate entro l'urna dello spazio / con la figura in sonno sul coperchio»; con una prosecuzione, un'eco della stessa limpida trama fonosimbolica di cui abbiamo seguìto il filamento finissimo: «Esasperi lunghe / linee, irreali fai corpi / che inverano ombre di morti. / (…) Non liriche lasciarono / a te i Tusci / nei sepolcri ai colli, / ma lari irreali spiriti giovanili».
Infine, «tu riparti col ricordo del futuro / nel seminare passi sui sassi / eterni il presente». Il cammino, il viaggio - che parrebbero per definizione immagine della mutevolezza - rendono eterni gli istanti, effigiano e perpetuano il divenire, perché il tempo stesso è immagine mobile dell'eternità, e le asprezze del transeunte sono subitanee dissonanze sfuggite all'armonia e alla ricomposizione del trascendente.
Così come, in Rebora, il cielo che sovrasta la terra, ed eccede, e consola, la mobile immobilità del binario morto che attende nella sua solitudine il fragore e lo stridio di nuovi viaggi, «verso l'amore pertugia l'esteso, / e non muore e vorrebbe, e non vive e vorrebbe, / mentre la terra gli chiede il suo verbo / e appassionata nel volere acerbo / paga col sangue, sola, la sua fede».

 


Matteo Veronesi (agosto 2017)

 

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